La tentazione è donna… lo sanno anche i bambini

“Il sole mi stava chiamando. Dopo un lungo periodo di freddo infernale la primavera era ormai alle porte. Il cielo era limpido e il clima a dir poco perfetto. Non avevo scelta perché ormai la nostalgia di quei lunghi giri in bicicletta si faceva sentire… la soluzione era una e una soltanto: zaino in spalla e partire all’avventura. L’euforia era diventata in pochi secondi parte di me, la gioia mi scorreva nel sangue e sul mio volto era comparso un sorriso che nemmeno Samara sarebbe riuscita a togliermi. Mi preparai in fretta e furia; non potevo aspettare troppo altrimenti si sarebbe fatto buio, e inoltre la bici mi chiamava. Ero finalmente pronta. Presi le chiavi di casa e abbassai la maniglia del portone di ingresso. Con un leggero spavento mi resi conto che di fronte a me vi era una donna. Era mia madre di ritorno dal lavoro. In apparenza il nostro incontro potrebbe sembrare insignificante ma quell’incontro. Quell’incontro poteva voler dire una cosa soltanto: che la tentazione esiste ed è donna. Era arrivata la macchina.”

La tentazione è donna ci dice questo simpatico post feisbucchiano. Ma perché associamo la tentazione al genere femminile? La risposta l’ho data in parte nel precedente post parlando di Creazione. Già, perché è proprio dal racconto contenuto nel primo libro della Bibbia che derivano gran parte degli stereotipi associati al genere femminile. Rinfreschiamoci la memoria. Dio, dopo aver creato Adamo ed Eva, li mette a vivere nel giardino dell’Eden, comandando loro di nutrirsi liberamente dei frutti di tutti gli alberi presenti, tranne che dei frutti del cosiddetto albero della conoscenza del bene e del male. Ma i due, tentati dal serpente, mangeranno il frutto dell’albero proibito. In realtà è la donna che offre il frutto all’uomo, condannandolo al peccato e di conseguenza, alla morte.

Le donne erano considerate essere in stato di punizione a causa del peccato.

Le storie bibliche della creazione vennero interpretate come prova della permanente sottomissione delle donne all’uomo, come punizione.

I Padri della Chiesa ritennero le donne responsabili di aver portato il peccato originale nel mondo, e di essere fonte di continua seduzione; da qui ne deriva una reale “misoginia” ed una vera e propria persecuzione. La caccia alle streghe fu il risultato più eclatante di questa malata visione del genere femminile. Conoscete il Malleus Maleficarum? Conosciuto anche come Martello delle streghe, è un testo in latino, pubblicato nel 1487 da due frati domenicani allo scopo di reprimere in Germania l’eresia, il paganesimo e la stregoneria. Riscosse i consensi della quasi totalità degli inquisitori e di autorevoli ecclesiastici, nonché di giudici dei tribunali statali sive secolari, tanto che ne vennero pubblicate trentaquattro edizioni e oltre trentacinquemila copie impresse anche in edizione tascabile. Il Malleus Maleficarum rimase, fino alla metà del XVII secolo, il più consultato manuale sulla caccia alle streghe, sia da parte degli inquisitori cattolici, sia dei giudici protestanti, poiché spiega proposizione per proposizione come comportarsi in ogni singola occasione. Il libro è diviso in tre parti. La prima affronta la discussione sulla natura della stregoneria. Le donne, a causa della loro debolezza e a motivo del loro intelletto inferiore sono predisposte a cedere alle tentazioni di Satana. Il titolo stesso presenta la parola maleficarum (femminile) e gli autori dichiarano (erroneamente) che la parola femina (donna) deriva da fe + minus (fede minore). Alcuni degli atti confessati dalle streghe, quali ad esempio le trasformazioni in animali o mostri, sono mere illusioni indotte dal diavolo, mentre altre azioni, come ad esempio la possibilità di volare ai sabba, provocare tempeste o distruggere i raccolti sono possibili. Gli autori, inoltre, si soffermano con morbosa insistenza sulla licenziosità dei rapporti sessuali, che le streghe intratterrebbero con i demoni. La donna per secoli viene vista quindi come simbolo del male e del peccato, un oggetto da tenere lontano dall’uomo e utile solo a procreare. Tornerò a parlare in futuro e ad analizzare nel dettaglio questo manuale.

Ma in questo post vorrei soffermarmi sugli stereotipi di genere, ovvero quelle caratteristiche che associamo, senza nemmeno pensarci, agli uomini e alle donne.

Perché vi ho introdotto l’argomento parlando di Creazione e di Malleus Maleficarum? Semplicemente perché molti degli stereotipi di genere, soprattutto per quello che riguarda la figura della donna, provengono dal passato e da un’educazione religiosa difficile oggi da rimuovere. In senso ampio, va riconosciuto che i gruppi sociali, culturali, religiosi, politici praticano un’educazione di genere, che influenza il soggetto pur non ponendosi questo obiettivo. Quindi tutti noi, fin da bambini, siamo educati a vedere gli uomini e le donne in maniera diversa, associando al singolo genere delle caratteristiche ben definite.

Gli stereotipi sessisti assorbiti durante l’infanzia sono i più duri a morire, in quanto il cervello dei bambini in questa fase è estremamente plastico, quindi maggiormente ricettivo agli stimoli provenienti dall’ambiente esterno, e tuttavia sprovvisto degli strumenti necessari a filtrare le informazioni di cui viene bombardato. Come risultato, i dati immagazzinati in questo periodo della crescita sono tenacemente ancorati alla nostra memoria e diventano pertanto parte integrante del nostro essere persone.

“Le fiabe della tradizione propongono donne miti, passive, unicamente occupate alla propria bellezza, incapaci; le figure maschili sono attive, forti, coraggiose, leali e intelligenti. Le figure femminili delle favole generalmente appartengono a 2 categorie: le buone e inette o le malvagie. Nelle fiabe dei Grimm l’80% dei personaggi negativi sono femmine. Le poche figure femminili buone e positive, sono le fate che, però, non usano le proprie risorse personali, ma un magico potere conferito dall’esterno.

Senza andare troppo lontano nel tempo, con le storie centenarie della tradizione popolare, osserviamo che ancora oggi, all’inizio del Duemila, la scuola italiana continua a tramandare modelli di mascolinità e femminilità rigidi e anacronistici, sulla base dei quali gli alunni dei due sessi andranno a strutturare le rispettive identità di genere.>”

I cartoni della Disney, indubbiamente, trasmettono un sacco di messaggi positivi: possono spronare nell’essere altruisti e\o ottimisti, all’impegnarsi in quello che si fa, a cercare di cambiare il proprio destino, ecc ecc.. Ma nel 90% dei casi la bellezza delle protagoniste e il lieto fine con l’amore finalmente conquistato sono i temi preponderanti. Il messaggio trasmesso è che trovare l’amore della propria vita è lo scopo per una donna e la bellezza è il mezzo per conquistarlo.

Le figure femminili che appaiono in queste storie propongono modelli superati dall’attuale realtà sociale , infatti oggi le bambine vivono un vita dinamica, studiano, fanno sport ecc … , ma nelle favole e nei racconti le fanciulle restano fragili ed indifese in perenne attesa del principe azzurro che, con tanto di collant, piuma e cavallo, venga a sollevarle dalla loro, quasi certa, situazione di degrado al fine di ingravidarle e farle così vivere nel tanto agognato e vissero felici e contenti.

Si narra, nella maggior parte dei casi di donne/bambine vanitose, unicamente interessate della loro bellezza, con un’innata predilezione per i guai a causa della loro stupidità mista ad un’immancabile ingenuità; mancano del tutto le donne intelligenti, coraggiose, attive, leali e nel momento in cui sono presenti, rappresentano in genere figure negative , invidiose, che vivono nell’ombra e utilizzano i poteri magici per commettere atti malvagi (le streghe… ricordate?).

Ma vediamo nel dettaglio le caratteristiche di alcune delle più famose “principesse” delle fiabe Disney.

BIANCANEVE (1937). Leggiadra fanciulla dalla pelle bianco latte con boccolosi capelli neri corvino. Dotata di una spiccata indole francescana, diletta con la sua voce soave gli animali vicino lei. Essendo stata insignita del titolo “La più bella del reame” da uno specchio parlante, è costretta alla fuga dall’invidiosa matrigna desiderosa del suo cuore. Fortunatamente trova aiuto nel guardiacaccia, riuscendo così a fuggire nei boschi. Occupa abusivamente una casetta, godendo per un breve periodo del diritto di usufrutto. Dopo aver dimostrato ai sette nani minatori di saper pulire e cucinare, ottiene l’incarico di colf che svolgerà senza retribuzione e contributi pagati. Biancaneve inizia perciò una vita nuova cucinando, pulendo e badando alla casa dei nani mentre loro cercano i diamanti nella miniera, e alla sera cantano, suonano e ballano.

La malefica strega scopre che Biancaneve è ancora viva, ed essendo fan del motto chi fa da sé fa per tre , si reca nel bosco, dopo essersi trasformata in un’orribile vecchina, per ucciderla. Giunta nei pressi della casetta, riesce a convincere l’ingenua fanciulla nel mordere la famigerata mela dei desideri (mela-tentazione, vi dice niente?) cadendo così in un catatonico stato di pseudo morte.

Successivamente è un susseguirsi dei soliti eventi: la strega muore, il solito principe cerca moglie innamorato della voce della principessa la trova, la bacia e… vissero felici e contenti.

Che dire di questa principessa? Ingenua fanciulla, incapace di badare a se stessa, con una spiccata propensione per i guai (persino gli uccellini avevano capito che la vecchina era la strega sotto mentite spoglie) e con un unico sogno : il principe con il cavallo che andrà a recuperarla e la porterà nel suo fantastico castello, con mille stanze da pulire, al fine di ingravidarla .

CENERENTOLA (1950). Una delle principesse più amate della storia della Disney. La povera, scalognata, virtuosa domestica e bellissima Cenerentola che viene costretta dalla matrigna e dalle sorellastre cattive, invidiose della sua sfolgorante bellezza, a lavorare come sguattera nella dimora di famiglia. Riesce a introdursi furtivamente al ballo del secolo grazie alla provvidenziale complicità di un gruppo di topi e di una fatina e ovviamente conquista l’ambito principe al primo sguardo. Poi si fa tardi, lei è costretta a fuggire senza dargli spiegazioni di sorta né un recapito di qualche genere, e perde la famosa scarpetta. Il principe, icona inconsapevole del movimento fetish, trascorre giornate intere trastullandosi con tale scarpetta, prima di essere folgorato sulla via di Damasco e stabilire di risolvere i propri dilemmi convolando con fanciulla il cui piedino la calzerà la pennello.

Gli stereotipi sessisti abbondano. C’è l’eterna rivalità/invidia tra donne. Il mito della bellezza femminile come chiave per spalancare ogni tipo di porta. La competizione per ottenere le attenzioni del maschio di turno e l’incapacità di lavorare in gruppo. L’esaltazione della figura femminile modesta che svolge i lavori più umili mantenendo intatta la propria purezza e virtù. L’idea che sarà l’incontro con l’Uomo Giusto a salvarla dai guai e a cambiarle la vita.

AURORA (1959). La bella addormentata nel bosco. Un classico pieno di pathos, amore e ovviamente tanti stereotipi. Il re e la regina di un posto molto lontano, finalmente riescono ad avere una bimba, Aurora. Si preparano feste, balli ai quali vengono invitate tre fate che fremono di dare i loro preziosi doni ( considerati delle virtù… ma da chi? ) alla fortunata pargola: Bellezza e capacità canore. All’improvviso ecco sbucare la strega cattiva con tanto di corvo che le lancia una bella maledizione: “Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio… sarai così rincoglionita che, segregata e impossibilitata di parlare con alcuno, riuscirai a pungerti con un fuso e morirai!” Per fortuna Serenella non aveva ancora fatto il suo dono-virtù e così al posto di diventare un’ottima casalinga, bella e con spiccate doti canore si addormenterà in un sonno profondo e potrà risvegliarsi solo nel momento in cui, uno spavaldo principe cerca moglie, non le somministrerà il bacio del vero amore per ottenere la formula del …e vissero felici e contenti.

Il resto della storia è il classico iter seguito da tutte le favole: la principessa eccessivamente ingenua tocca il fuso e si addormenta, arriva il principe, uccide tutti i nemici, bacia la principessa e … e vissero felici e contenti.

ARIEL (1989). La storia è molto simile a quella di Cenerentola, e ne è per certi versi l’evoluzione, solo che lei è meno sfigata. La più giovane figlia del re degli abissi ha numerose sorelle, dalle quali non si sente molto compresa. Lei, infatti, prova un’attrazione fatale per tutto quello che proviene dalla terraferma e desidera ardentemente un paio di belle gambe. Salva la vita al principe di turno, inopinatamente sbalzato fuori dalla barca durante un nubifragio, e gli tiene compagnia intonando romanze marine mentre lui riprende conoscenza. Il ricordo della voce di lei rimane indelebilmente impresso nella mente di lui, che giura di sposare la proprietaria di quella voce tanto melodiosa (e ridaje!). Ariel decide quindi di ribellarsi all’autorità e al controllo paterno e baratta pinna e voce in cambio delle gambe con la medusa Ursula. Il principe tuttavia non la riconosce, e si infatua proprio della perfida Ursula, che nel frattempo ha assunto le sembianze di una bellissima donna dalla voce flautata. Ariel lotta con tutte le sue forze per l’uomo di cui è innamorata, ma la situazione sembra senza via di uscita. Il provvidenziale intervento del babbo di Ariel ha un ruolo cruciale e, in un crescendo di colpi di scena, Ursula sarà sconfitta e la nostra eroina sarà riconosciuta dallo sprovveduto principe grazie al recupero della sua voce e otterrà per sempre le gambe e con esse la possibilità di abbandonare il mare per trasferirsi definitivamente sulla terra. Qui sono presenti tutti gli stereotipi già citati per Cenerentola e per il suo principe, con l’aggiunta del fatto che Ariel ha “molto” da perdere nell’abbandonare il mondo marino nel quale è principessa, e che non esita a farlo per mettersi assieme a uno che manco venti minuti prima si sarebbe tranquillamente sposato la sua perfida antagonista solo perché questa aveva la sua voce. L’elemento di novità è rappresentato dalla maggior tipizzazione caratteriale di Ariel: se è vero che la curiosità della sirena sarà la causa di tutti i suoi guai, non possiamo non apprezzare l’energia con la quale si ribella al padre e alle norme sociali marine, e la determinazione con la quale affronta, da sola, le conseguenze delle proprie scelte.

POCAHONTAS (1995). Pocahontas è un po’ diversa dalle altre principesse, è  , come tutte ,una donna affascinante e bella. Alta, snella, atletica e voluttuosa spicca immediatamente per la sua prestanza. Ha una chioma corvina, lunga e ribelle. Dimostra di essere gentile, innamoratissima e amante della natura, è uno spirito libero e risulta essere molto coraggiosa e determinata. È, inoltre, molto fiera di essere un’indiana e dimostra un carattere forte e testardo. Insomma una principessa atipica, capace di esprimere le proprie idee e non cascare nel mito del principe azzurro e del suo fantastico castello.

MULAN (1998). Mulan rappresenta una perfetta eroina: è una giovane donna che, con l’intento di salvare il padre rimasto zoppo in guerra e per riscattare l’onore perduto in quanto considerata poco adatta a fare la moglie, si traveste da uomo e parte per il campo di addestramento militare.  Riuscirà, nonostante le tante difficoltà, a completare l’addestramento e guadagnare il rispetto dei suoi compagni grazie alla sua intelligenza.

Ed è sempre grazie alla sua intelligenza che riesce a cambiare le sorti della battaglia a favore del suo esercito e a salvare la vita dell’imperatore.

Siamo perciò alla presenza di un personaggio femminile Disney a dir poco atipico: una donna capace di badare a se stessa  e che grazie alla sua perseveranza, caparbietà ed intelligenza riuscirà a sconfiggere il nemico rappresentato dall’esercito unno. Una donna che già all’inizio della storia, è poco incline a piegarsi a quei ruoli che la società dei suoi tempi le imponevano :la moglie.

Le principesse fin qui analizzate hanno sicuramente in comune l’eccezionale bellezza fisica, che viene sottolineata costantemente dalle parole e dai comportamenti degli altri personaggi, e che rappresenta il vero motore della storia.

Il messaggio che ne deriva è che se una ragazza non è bella verosimilmente non susciterà nessun tipo di emozione nelle persone che le stanno intorno e quindi nella sua vita non succederà mai nulla di eccitante o degno di essere raccontato.

Le donne intelligenti e attive rappresentano in genere figure negative , invidiose, che vivono nell’ombra e utilizzano i poteri magici per commettere atti malvagi e far del male ai protagonisti impedendo in qualche modo il loro amore. Le protagoniste leali e positive, solitamente rappresentano un ruolo femminile subordinato : sono belle, buone e gentili, ma poco adeguate alla sopravvivenza. Soprattutto, dipendono dall’arrivo del principe azzurro per diventare adulte realizzate .

Il principe, invece, dopo aver affrontato mille peripezie, combattuto contro mostri e draghi e superato prove difficilissime, realizza il proprio scopo e la ricompensa che riceve è sempre la stessa: troverà l’amore, la felicità, la ricchezza per poi  un giorno diventare re , ovvero un adulto realizzato .

La maggior parte delle principesse delle favole rappresentano quindi dei modelli negativi e con una forte impronta maschilista e sessista poiché mostrano un modello di donna passiva, capace di riscattarsi solo in virtù dell’intervento maschile e senza del quale è costretta a vivere una vita degradante e triste, una donna che non sa salvarsi da sola, capace solo di essere bella, servizievole e di far innamorare il fantomatico principe. Insomma la donna è rappresentata come un essere incompleto, perennemente sottomessa e bisognosa di aiuto, come se non fosse capace di pensare a se stessa da sola.

Le favole sono ricolme di stereotipi che possono essere interiorizzati da chi le guarda: l’immagine stereotipata della principessa può trasmettere alle bambine un senso di impotenza, di attesa passiva del principe azzurro che risolverà ogni problema. La povertà può essere invece vista come una debolezza, un qualcosa di sbagliato a differenza invece della ricchezza che diviene addirittura un valore.

Le bambine, sempre secondo le favole, devono possedere un comportamento aggraziato e diligente mentre i bambini possono essere ingegnosi ed avventurosi.

Se le primissime principesse non hanno alcun tipo di spessore caratteriale (pensiamo ad Aurora che dorme per quasi tutto il cartone, o Biancaneve che passa il tempo a pulire e dormire), con Ariel compaiono gli elementi di ribellione e curiosità che caratterizzano anche le principesse successive

E’ forse un segnale del fatto che la Disney sta percependo i cambiamenti sociali in atto?

Molto probabilmente si; sta ai genitori, in primis, educare i figli in modo che non assimilino totalmente i vecchi stereotipi delle favole. Compito certamente non facile per una società, come la nostra, ancorata al passato.

In fondo la Disney &Co. trasmettono i messaggi che la società vuole vengano trasmessi, quindi il cambiamento, come in tutte le cose, deve partire dal singolo individuo. E’ l’unico modo, se vogliamo, per abbattere una volta per tutte le discriminazioni di genere e arrivare ad una vera parità dei sessi.  Passo e chiudo.

L’8 Marzo e una festa che non ha più senso di esistere

Immagino tutte le donne che avranno letto il titolo di questo post e che avranno pensato:”ecco, il solito maschilista”…

Ed è proprio per questo che vorrei iniziare questa mia riflessione riportandovi il pensiero di una donna:

“Mary Poppins. Quando ero piccola era uno dei miei film preferiti. È li che mi sono scontrata per la prima volta con la figura delle suffragette. Da allora ho iniziato a percepire che le donne hanno sempre avuto un’esistenza problematica, in quanto donne. Da allora io amo le suffragette, e nonostante non sia ben informata sul loro operato e le mie conoscenze sull’argomento siano a dir poco ristrette, la loro figura mi affascina moltissimo. Per metterla giù molto sinteticamente si tratta di donne che hanno lottato con grinta e forza d’animo con uno scopo comune, quello di far valere i propri diritti ed essere finalmente riconosciute alla pari dell’uomo, inteso come genere maschile.

È curioso pensare al fatto che la stessa identica cosa, trattata ovviamente in maniera differente, la si possa percepire in un altro film a marchio Disney: Mulan, una donna (passatemi il francesismo) con i controcazzi.

È assurdo però, secondo la mia modesta opinione, che il genere femminile si sia dovuto scontrare con una realtà che lo considerava inferiore. È assurdo che la donna abbia dovuto lottare per qualcosa che avrebbe dovuto essere sempre stato suo. È assurdo che tutto ciò che è accaduto in merito a questa questione sia davvero accaduto. A fronte di ciò sono convinta che ricordare il tormentato passato della donna sia più che doveroso, come è doveroso ricordare che nonostante le difficoltà le donne si siano sempre difese, o perlomeno ci abbiano provato. Ricordare che di fronte ad un problema si siano sempre impegnate al massimo per affrontarlo e cercare di superarlo, lottando. Perché di lotta si tratta, lotta per la parità, lotta per i diritti, lotta per la giustizia, ma soprattutto lotta per la libertà.

Oggi è la nostra festa e pertanto invito tutte le donne a celebrarla, riflettendo sull’incredibile forza d’animo che abbiamo, spesso nascosta dietro a paure o fatti, o magari guardando con i nostri figli un film di animazione che ci ricorda chi siamo veramente; DONNE.”

È assurdo però, secondo la mia modesta opinione, che il genere femminile si sia dovuto scontrare con una realtà che lo considerava inferiore.”

Questa osservazione mi trova perfettamente d’accordo. A tal punto da domandarmi se oggi, 8 Marzo 2017, abbia ancora senso celebrare una giornata per la donna. Non fraintendetemi ancora, non sono un maschilista; ma non posso e non voglio definirmi nemmeno un femminista. Sono un’umanista e perciò affermo la dignità e il valore di tutte le persone, senza fare alcuna distinzione di genere.

E’ per questo motivo che mi chiedo se oggi abbia senso festeggiare il genere femminile, anzi mi domando se il termine “festa” sia il più corretto. In realtà, se escludiamo le varie leggende che sono nate intorno a questa ricorrenza, fu l’ONU con la risoluzione 3010 (XXVII) del 18 dicembre 1972, ricordando i 25 anni trascorsi dalla prima sessione della Commissione sulla condizione delle Donne, a proclamare il 1975 “Anno internazionale delle donne”. Il 16 dicembre  1977, con la risoluzione 32/142 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite propose ad ogni paese, nel rispetto delle tradizioni storiche e dei costumi locali, di dichiarare un giorno all’anno “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale”. Visto che l’8 marzo veniva già festeggiato in diversi Paesi, fu utilizzato come giornata ufficiale. Come si è trasformata questa festa nel corso degli ultimi decenni dovrebbe essere a mio avviso motivo di riflessione. Non avrebbe forse più senso instituire una giornata della memoria, per ricordare tutte le donne vittime di questa guerra di genere?  Una guerra che ha radici antiche, le cui cause andrebbero ricercate studiando i popoli primitivi. Basta prendere in mano una Bibbia e leggere i due racconti della Creazione per rendersi conto che, fin da subito, la condizione della donna è stato oggetto di discussione. Il primo racconto parla chiaro e vede uomo e donna creati insieme, per una perfetta simmetria e una medesima dignità. Ma è il secondo racconto ad aver avuto maggiore fortuna, quello nel quale la donna, generata a partire dall’uomo, tradisce Dio e l’uomo, e porta il peccato nel mondo. Ricordate la storia della mela che vi hanno insegnato da bambini? (mela che, a proposito di film disney, ritroviamo in Biancaneve, come simbolo malefico). Ecco, quella mela non è mai esistita. Primo perché non v’è n’è traccia nella Bibbia dove in realtà si parla solo dell’albero della conoscenza del bene e del male; secondo perché quel frutto è semplicemente un’allegoria e rappresenta la voglia di conoscenza dei primi uomini. Conoscenza a cui spesso è stato dato un significato sessuale, da qui le interpretazioni della prima donna (quella povera Eva) come colpevole e seduttrice, simbolo del male. Un interpretazione che la Chiesa (evangelica più che cattolica) cavalcherà nei primi secoli dell’era moderna e che porterà immenso dolore al genere femminile. La caccia alle streghe vi dice qualcosa? Facciamo però un passo indietro e soffermiamoci su questa interpretazione. Da quel momento quindi, (stiamo parlando di circa 500-600 anni prima di Cristo) il peccato originale istituzionalizza l’asimmetria di ruolo tra i due generi. L’uomo è destinato alla ricerca del cibo e al sostentamento della famiglia, mentre la donna è relegata al ruolo di madre, utile solamente nell’attività della procreazione. La maggior parte delle civiltà di quel tempo iniziano a vedere la donna sotto questa veste, con qualche differenza. Ad esempio nella Roma repubblicana la donna ha pochissimo rilievo nella società; è l’uomo la figura prevalente, con poteri di vita e di morte su di lei e sui figli, padrone della casa e della familia e l’unico a godere di diritti politici. La donna non aveva diritto nemmeno ad un nome proprio, ma prendeva il nome della “Gens”; il suo unico scopo era quello di amministrare la casa e crescere i figli. Attenzione, perché questa condizione della donna la ritroveremo anche in epoche successive, compresa quella contemporanea. Chiedete alle vostre nonne/madri o fate una piccola ricerca sulla donna italiana del novecento; non troverete molte differenze con la donna in epoca romana. Con la Roma imperiale le cose cambiano leggermente, troviamo donne che possono godere di status sociali più evoluti: le matrone, ad esempio, che avevano piena libertà in ambito casalingo, le serve che dovevano sottostare alle matrone, mentre spunta la figura (ovviamente in carattere negativo) della concubina, donna di facili costumi e poco rispettabile, fino ad arrivare al gradino più basso della società rappresentato dalle prostitute. Ma è in questa epoca che nascono i primi movimenti femministi (si avete capito bene, proprio 2000 anni fa)  e la donna inizia un processo di emancipazione, cominciando a partecipare attivamente alla vita politica, a studiare, ed in alcuni casi a dedicarsi persino alla caccia, sport che fino ad allora era stato esclusivamente maschile. Se ci spostiamo in Egitto la condizione della donna è addirittura superiore a quella di molte donne dell’età contemporanea (a dimostrazione di come fossero una civiltà evoluta per quei tempi). La società egizia riconosceva non l’uguaglianza sociale dei sessi (nel senso più moderno del termine, o le pari opportunità), bensì la complementarità essenziale nei compiti a cui erano destinati rispettivamente uomini e donne. Ma tornando alla civiltà occidentale cos’è accaduto ad un certo punto per frenare bruscamente questo processo di emancipazione femminile? Difficile spiegarlo in un post di poche righe, ma sicuramente hanno contribuito in maniera importante le influenze delle principali religioni monoteistiche. Con questo non sto dicendo che la Bibbia vede la donna come essere inferiore e inutile; sia nei Salmi che nel Cantico dei cantici, per citare due libri dell’antico testamento, troviamo un’esaltazione della donna. Il problema sorge nell’interpretazione che le prime comunità cristiane, influenzate dall’ebraismo, hanno dato al ruolo della donna. La posizione di Paolo, che ricordiamo come il vero fondatore del Cristianesimo, è chiara. « Voglio tuttavia che sappiate questo: Cristo è il capo di ogni uomo, l’uomo è capo della donna e Dio è capo di Cristo>> E ancora: << le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea>>. << La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna d’insegnare né di dettare legge all’uomo>> Iniziate a capire da dove deriva l’attuale condizione della donna in Italia e nel mondo occidentale? Ma andiamo avanti. Nel III secolo, la separazione e sottomissione delle donne agli uomini, nelle comunità cristiane, organizzate come le sinagoghe, nelle quali le donne ebree erano da sempre escluse dall’attiva partecipazione al culto, è compiuta. Piuttosto eloquenti i pensieri e le parole di Agostino, uno dei Padri della Chiesa, che rivolgendosi al genere femminile lo apostrofa con questi termini. <<La donna è un animale né saldo né costante; è maligna e mira ad umiliare il marito, è piena di cattiveria e principio di ogni lite e guerra, via e cammino di tutte le iniquità.>> Di quello che pensava questo “santo” in termini di sesso e procreazione magari ne parlerò in un’altra occasione. Tommaso d’Aquino, altro Padre della Chiesa, dedica alla posizione della donna rispetto all’uomo e a Dio alcune questioni da lui dibattute e risolte nella sua Summa Theologiae. Tommaso giunge alla conclusione, partendo sempre dal secondo racconto della Creazione, che la donna non doveva nemmeno essere creata nell’idea originale, essendo un maschio mancato. Ma essendosi Dio accorto dell’errore (visto che l’uomo da solo non avrebbe potuto procreare) gli fornisce un aiuto che sarà quindi la donna (non creata quindi come gli altri esseri viventi dal nulla, ma creata a partire dall’uomo). Ed è da questa interpretazione piuttosto fantasiosa che nascono tutti i problemi, perché signori/e, ricordiamoci che l’attuale teologia si basa anche e soprattutto sugli scritti di questi Padri della Chiesa, quindi non stupitevi se oggi troverete ancora qualcuno, ancorato alla tradizione, che vede la donna come puro oggetto di sottomissione. Perché la visione della Chiesa nei confronti della donna è leggermente migliorata a partire dal secolo scorso ma è un processo ancora molto lungo e tortuoso, un processo nel quale andrebbe rivista l’intera teologia. Di riflesso la nostra società è ancora piuttosto influenzata dalla religione, sicuramente meno rispetto al passato, ma ci sono credenze e tradizioni difficili da estirpare.

Perché se per Paesi come Stati Uniti e Inghilterra, a forte impronta democratica, già dall’800 le donne avevano coscienza dei propri diritti e reclamavano la possibilità di una maggior partecipazione alla vita pubblica, l’Italia ha dovuto aspettare un secolo circa per vedere riconosciuto alle donne questo diritto, con il referendum del 1946 tra monarchia e repubblica. Per non parlare di diritti come divorzio e aborto, riconosciuti solamente a fine anni 70 dopo una durissima battaglia ideologica. Ricordo che fino al 1981 (praticamente ieri), in Italia il delitto d’onore era punito con pene meno severe. L’art. 587 del codice penale consentiva quindi che fosse ridotta la pena per chi uccidesse la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere “l’onor suo o della famiglia”. La circostanza prevista richiedeva che vi fosse uno stato d’ira (che veniva in pratica sempre presunto). Non stiamo parlando di civiltà antiche o superate, ma di fatti che accadevano (accade ancora oggi a dirla tutta) non più di 40 anni fa.

Dopo questo excursus storico possiamo domandarci oggi qual è la condizione della donna nell’attuale società. Se escludiamo una minoranza ancora influenzata dalle religioni (attualmente i problemi maggiori li hanno le donne che vivono in una società con una forte impronta di fondamentalismo islamico), il genere femminile dal mio punto di vista ha quasi del tutto completato il processo di emancipazione. Il ruolo della donna nella società occidentale non è più quello di madre , funzionale alla procreazione e alla crescita dei figli; in famiglia i rapporti vanno sempre più nella direzione della parità dei generi, come nel lavoro, dove oggi la donna può ambire a ruoli manageriali pari a quelli dell’uomo. Non è solo apparenza, sono i numeri a parlare. Ma sono sempre i numeri a trasmetterci uno scenario drammatico per quanto riguarda la violenza sulle donne. Secondo un rapporto Istat sono state quasi 7 milioni (1 su 3) le donne italiane che nel corso della loro vita hanno subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale. E se è vero che c’è stata una diminuzione negli ultimi anni, è altrettanto vero che sono aumentate le violenze più gravi, quelle che hanno causato ferite o perdite di vite. Ma il dato a mio avviso più raccapricciante riguarda il rapporto che l’Ipsos ha svolto insieme a We World Onlus sui ragazzi tra 18 e 29 anni; rapporto che afferma che per il 32% dei giovani intervistati gli episodi di violenza vanno risolti all’interno delle mura domestiche e non denunciati; addirittura per un 25% di loro la violenza sulle donne è giustificato dal troppo amore oppure al livello di esasperazione al quale gli uomini sarebbero condotti da determinati atteggiamenti delle donne. Di fronte a questi numeri e a questo rapporto la domanda provocatoria che ho fatto all’inizio dovrebbe trovare una facile risposta. Ma visto che sono una persona che è sempre stata molto attenta alle parole e al loro significato mi domando: ha veramente senso oggi parlare di Festa della donna? Tu, donna, che hai appena letto queste mie parole pensi davvero che ci sia qualcosa da festeggiare oggi? Dal latino festum e dall’aggettivo sostantivo dies festus (giorno di festa), il termine indica “gioia pubblica, giubilo, baldoria”. Gioite perché il 30% di voi ha subito una violenza nella propria vita? Gioite perché la vostra religione vi classifica come esseri inferiori, portatrici sane del peccato originale, strumenti diabolici? Accetterete o avete accettato oggi gli auguri di quegli uomini che vi hanno sempre considerato esseri inferiori? Magari quel marito che ha alzato più di una volta le mani su di voi per legittimare il suo status di uomo alfa? O del vostro capo che magari vi ha guardato sempre dall’alto verso il basso, perché diciamocelo, una donna che esprime il proprio pensiero in maniera intelligente è un nemico da denigrare, non da elogiare o promuovere. Siete davvero così convinte che oggi sia la vostra festa? Io no. Ecco perché abolirei immediatamente questa ricorrenza, unendola al 25 novembre (giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne) e trasformandola in una giornata della memoria e della riflessione. Tornando alle parole iniziali direi che sì, è proprio assurdo, che oggi 8 marzo 2017, esista un giorno dedicato alla donna. Il femminismo in questo senso ha fallito perché non si è reso conto che la battaglia andava e andrebbe spostata su altri fronti; perché mantenere questa festa dal mio punto di vista non fa altro che creare degli alibi al genere maschile. Perché se nel 2017 un parlamentare europeo può permettersi durante una seduta, quindi in veste di rappresentante ufficiale del proprio Paese, di dire: “Sapete quante donne ci sono tra i primi cento giocatori di scacchi al mondo? Ve lo dico io, Nessuna. Le donne dovrebbero guadagnare meno degli uomini, perché sono più deboli, più piccole, meno intelligenti”, vuol dire che dal passato non abbiamo imparato proprio nulla.

Passo e chiudo.

La sensazione del boh

“Cosa era successo quella sera non lo so. Ma avevo questa cosa che non mi lasciava. Si era attaccata a me con una stretta tale che non saprei neanche descrivere. Non vi è mai capitato? Che vi succedesse qualcosa, non so. E poi rimanere fissi nel vuoto, oppure volere fare mille cose ma non sapere cosa, e allora di nuovo il vuoto. Non è descrivibile come sensazione perché non è felicità ma non è tristezza, non è stanchezza ma non è nemmeno euforia. Non sapete cosa è. Ecco, è proprio quella la sensazione. Non sapere cosa è. Vi è mai capitato di non sapere cosa avete? Di rispondere boh a qualsiasi cosa vi venga in mente o che vi viene chiesta. Boh. Io mi sento boh. La sensazione di stasera è boh. Come stai? boh. Cosa ti senti? Boh. E sotto sotto i tre quarti delle volte in realtà sai benissimo che cosa hai, se sei innamorato, se hai dei problemi, se desideri qualcosa o sei triste per qualcos’altro. Ma quella sera, quella sera era semplicemente boh. Perché non avevo niente, niente di niente. Forse gli effetti della sangria? boh. Nulla mi veniva in mente perché la mente era come se non funzionasse, come persa nei meandri del nulla, il vuoto. Avevo tante altre cose per la testa in quel periodo, certo, ma quella sensazione era a parte. Non andava a toccare nulla di nulla, non andava a toccare la mia vita sentimentale né quella lavorativa. Assolutamente nulla, era una sensazione a sé. E non se ne andava sapete? Rimaneva lì fissa se io stavo ferma, e appena mi muovevo questa mi seguiva, vi sarà sicuramente capitato. Non riuscire a staccarvi da qualcosa perché è come se quel qualcosa non volesse staccarsi da voi, e voi impotenti. Perché voi non siete nulla e non avete capito nulla. Io non sono nulla e non ho capito nulla. E non la potete prendere bene perché non siete certi sia una bella sensazione, ma nemmeno male perché certamente la stessa cosa vale anche in questo caso. E quindi non avete altra scelta. La sensazione indescrivibile di quella sera aveva un’unica soluzione: non aveva soluzione. Non doveva essere capita. Era la sensazione del boh.”

Era stata quella sensazione a bloccarmi? Avete presente quando si parla di blocco dello scrittore? Ne avrete sicuramente sentito parlare. Non esiste una ragione, accade e basta. Per anni le tue dita si sono mosse su quella tastiera, più veloci dei pensieri che scorrevano nella mente. E poi cos’è accaduto? Boh… proprio quella sensazione. Sindrome della pagina bianca, panico da schermo vuoto, indisposizione creativa, entusiasmo scomparso; chiamatela come volete, ma un giorno era arrivata senza un’apparente motivazione. Perché non scrivi più? Perché non posti più nulla? Non potevo di certo dire che mi mancasse la voglia di mettere nero su bianco quello che mi passava per la testa. Era forse stanchezza? Bisogno di prendermi una pausa da quel mondo? In fondo in quegli anni avevo passato giornate e, persino nottate, a scrivere, commentare, discutere con entità forse reali o forse no. E poi? La voglia di portare nel mondo reale quella persona aveva preso il sopravvento? La paura che quel personaggio che mi ero creato fosse solo un insieme di maschere aveva accelerato la mia dipartita dal mondo dei blogger? Eppure la fame di conoscenza, la curiosità, la voglia di confrontarmi e il gusto della polemica non mi avevano mai, o quasi, abbandonato in questi anni. Ne sono passati più di 6 da quell’ultimo post. In questi 6 anni ho accumulato un bagaglio notevole di esperienze ed emozioni ; la mia vita reale ha subito notevoli trasformazioni e spesso ho avvertito in me la voglia di ricominciare. In fondo se ho deciso di non cancellare mai del tutto quel luogo e quel personaggio è perché sapevo che prima o poi l’avrei tirato fuori dalla soffitta dei ricordi, l’avrei spolverato per bene e gli avrei fatto indossare una nuova maschera e un nuovo abito.

Cosa mi ha spinto a farlo proprio ora? Direi la sensazione del boh.

L’ultima lettera e l’ultima intervista di Paolo Borsellino… Per non dimenticare

di Salvatore Borsellino – 19 luglio 1992
Questa è l’ultima lettera di Paolo Borsellino, scritta alle 5 del mattino del 19 Luglio 1992, dodici ore prima che l’esplosione di un’auto carica di tritolo, alle 17 dello stesso giorno, davanti al n.19 di Via D’Amelio, facesse a pezzi lui e i ragazzi della sua scorta.


Paolo si alzava quasi sempre a quell’ora. Con quella sua ironia che riusciva a sdrammatizzare  anche la morte, la sua morte annunciata, diceva che lo faceva "per fregare il mondo con due ore di anticipo" e quella mattina cominciò a scrivere una lettera alla preside di un liceo di Padova presso il quale avrebbe dovuto recarsi a Gennaio per un incontro al quale non si era poi recato per una serie di disguidi e per i suoi impegni che non gli davano tregua.

La faida di Palma di Montechiaro che Paolo cita nella lettera la ricordo bene.
A Capodanno dello stesso anno ero con lui ad Andalo, nel Trentino dove avevamo passato insieme il Natale, per la prima volta da quando, nel 1969, ero andato via dalla Sicilia, ed avevamo deciso di ritornare passando per Innsbruck che avevamo entrambi voglia di visitare insieme con le nostre famiglie.
Non fu possibile perchè Paolo ricevette la notizia della strage di mafia che c’era stata a Palma di Montechiaro e dovette rientrare di fretta in Sicilia.
Fu l’ultima volta che vidi Paolo, da allora fino alla strage del 19 luglio ci sentimmo solo qualche volta al telefono e quando, dopo la sua morte, vidi le sue foto successive alla morte di Giovanni Falcone mi sembrò che in poco più di sei mesi fosse invecchiato di 10 anni.
La lettera è da leggere parola per parola, pensando proprio che sono le ultime parole di Paolo.
Quando dice che non riusciva in quei giorni neanche a vedere i suoi figli penso a quello che mi disse mia madre dopo la sua morte: le aveva confidato che non faceva più le coccole a Fiammetta la sua figlia più piccola e che stava cercando di allontanarsi affettivamente dai suoi figli perchè soffrissero di meno nel momento in cui lo avrebbero ucciso.
E che quel giorno lo avrebbero ucciso Paolo lo doveva quasi presagire, sapeva che a Palemo era già arrivato il carico di tritolo per lui. Lo sapeva anche il suo capo, Pietro Giammanco, che non gli aveva però riferito dell’informativa che gli era arrivato a questo proposito e Paolo, che invece lo aveva saputo per caso all’aeroporto dal ministro Scotti, aveva avuto con lui uno scontro violento.
Uno scontro che Paolo ebbe con Giammanco anche la mattina del 19 Luglio, quando quest’ultimo gli telefonò alle 7 del mattino, cosa che fino allora non era mai successa.
Forse anche Giammanco sapeva che quello era l’ultimo giorno di Paolo e per questo gli comunicò che gli aveva finalmente concessa la delega per indagare sui processi di mafia in corso di istruttoria a Palermo. Delega che avrebbe permesso a Paolo di interrogare senza più vincoli il pentito Gaspare Mutolo che in quei giorni aveva cominciato a rivelare le collusioni tra criminalità organizzata, magistratura, forze dell’ordine e servizi segreti.
Racconta la moglie di Paolo che Giammanco gli disse: "Ora la partita è chiusa" e Paolo gli rispose invece urlando "No, la partita comincia adesso".
Dopo quella telefonata Paolo non scrisse più niente sul foglio e la lettera rimase incompiuta sul numero 4), dopo gli altri tre punti nei quali Paolo, rispondendo a delle domande postegli dai ragazzi del liceo, ci da tra l’altro, in maniera estremamente semplice e chiara, come solo lui era in grado di fare, una definizione della mafia che bisognerebbe  che tutti conoscessero e che fosse insegnata nelle scuole.
Dieci ore dopo un telecomando azionato da una stanza di un centro dei Servizi Segreti Civili, il SISDE, ubicato sul castello Utveggio, poneva fine alla vita di Paolo ma non riusciva ad ucciderlo, oggi Paolo è più vivo che mai, è vivo dentro ciascuno di noi e il suo sogno non morirà mai.

Salvatore Borsellino

"Gentilissima" Professoressa,
uso le virgolette perchè le ha usato lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa e "pentito" mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del suo liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio.
Intanto vorrei assicurarla che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala) non foss’altro perchè a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Trib. di Palermo, ove poi da pochi giorni mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto.
Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/***963, utenza alla quale rispondo direttamente.
Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro.
Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affligevano. Mi preanunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno.
Il 24 gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stato "comunque" preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non ebbi proprio il tempo di dolermene perchè i miei impegni sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.
Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati..
Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perchè frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perchè dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati.

Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande.

1) Sono diventato giudice perchè nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribilie per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.
Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma otteni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle dispute legali, delle divisioni erediatarie etc.
Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovani Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro.
Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.
Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressocchè esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perchè vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.

2) La DIA è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.
La DNA invece è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali.
Sino ad ora questi organi hano agito in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dall’altro (indipendenza ed autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.

3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di "territorialità". Essa e suddivisa in "famiglie", collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, leggittimamente, lo Stato.
Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato.
E’ naturalmente una fornitura apparente perchè a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l’imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri (molti).
La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione.
Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perchè venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale.
Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, "ndrangheta", Sacra Corona Unita etc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra. ma non hanno l’organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del "consenso" di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.

 
 

Come rinascere dopo i veleni. La città dell’acciaio alla prova

Volete voi, per la vostra salute, rinunciare al 75% del Pil? Mica facile rispondere a una domanda così. Eppure è questo il primo quesito che verrà fatto ai tarantini se andrà in porto il referendum promosso da «Taranto futura». Referendum contro il quale sono stati sollevati davanti al Tar vari ricorsi. Non solo da parte dell’impresa presa di mira e della Confindustria ma anche della Cisl e della Cgil. L’Ilva rappresenta per la città pugliese, con i suoi 15 milioni di metri quadri di superficie, i suoi 200 chilometri di rete ferroviaria e 50 di strade interni, i suoi 9 milioni di tonnellate di acciaio solidificato, i suoi 13 mila dipendenti diretti e 7 mila nell’indotto, un colosso che pesa molto più della Fiat a Torino negli anni d’oro. Che la gigantesca industria siderurgica nata Italsider 50 anni fa (9 luglio 1959) e rilevata nel ’95 dal gruppo Riva abbia per decenni impestato Taranto, l’antica e nobile Taras della Magna Grecia, è fuori discussione. Lo certifica nel «Rapporto ambiente sicurezza 2009», edito per rasserenare gli animi, lo stesso Emilio Riva ammettendo che quando arrivò lui «gli stabilimenti della società, in particolare quello di Taranto, versavano in condizioni critiche e poca attenzione era riservata alle problematiche ambientali ». Tanto da costringerlo a investire «per l’ambiente e l’ecologia» complessivamente 907 milioni di euro.

Risultati? Ottimi, sostiene l’Ilva: riduzione «del 70% della concentrazione di polveri nei fumi dell’agglomerato», di «oltre l’80% nelle emissioni globali di ossido di zolfo», «oltre il 50% delle emissioni di cloro», «un ulteriore 50% di emissione di diossine» e via così… Di più: il consumo di acqua industriale è stato ridotto in 15 anni «del 40%» e sulle acque di scarico sono stati «investiti 110 milioni di euro per una riduzione fino al 98-99% di alcuni inquinanti». Ancora: su 5.514 campionamenti monitorati dal ministero dell’Ambiente «solo 16 hanno superato il limite di concentrazione della soglia di contaminazione prevista per i suoli a uso commerciale e industriale». No: risultati mediocri, ribattono gli ambientalisti. I quali ammettono che sì, una riduzione dei danni c’è stata, ma non sufficiente. «Secondo l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente Taranto è la città più inquinata d’Italia — accusa Alessandro Marescotti di Peacelink —. Il nostro è l’unico caso in cui il 93% dell’inquinamento viene da polveri sottili di origine industriale e solo il 7% è costituito da quello di origine civile. I morti di cancro rispetto a una volta sono raddoppiati. Stando alle proiezioni dell’Arpa Puglia sulle rilevazioni del febbraio 2008 l’area a caldo emette 172 grammi/anno di diossina cioè quanto Spagna, Svezia, Austria e Gran Bretagna messe insieme». Non basta: «La relazione Inail “La mortalità per neoplasie a Taranto” di Miccio e Rinaldi dice che “si rileva che il quartiere più prossimo all’area industriale presenta valori di mortalità quasi tripli rispetto ad aree più distanti”. E i terreni per venti chilometri intorno sono così contaminati che Vendola ha fatto un’ordinanza che vieta il pascolo…». Leo Corvace, di Legambiente, conferma: «Hanno già dovuto abbattere 1200 pecore e capre perché avevano trovato diossina nel latte e nelle carni. E ci risulta che purtroppo non è ancora finita». Fin qui, gli ambientalisti sono compatti. Anche a dispetto delle perplessità di scienziati come Carlo La Vecchia, capo del dipartimento di epidemiologia del «Mario Negri» di Milano, secondo il quale «i numeri dicono che nel loro complesso non vi è eccesso di tumori a Taranto. C’è stato, questo sì, un problema grave di esposizione all’amianto ma riguardava i cantieri navali. In ogni caso stiamo parlando di esposizioni a rischio in passato. Non oggi». Tesi raccolta dall’avvocato Francesco Perli, legale dei Riva, che rilancia: «L’Ilva non si è mai spostata da dove venne perimetrata e semmai ci fosse uno squilibrio è perché nell’anarchia si sono “avvicinati” abusivamente all’area industriale i quartieri Paolo VI e Tamburi». Risposta di Corvace: «Ma non è vero! Tamburi esisteva da prima dell’Italsider!».

Anche sulla chiusura della cosiddetta «area a caldo» dello stabilimento, già smantellata a Genova, i verdi sono d’accordo. Sul referendum, però, la frattura è netta. «Io sono del 1958 e voglio tornare a respirare l’aria che si respirava nel 1958», dice Marescotti. Corvace no: «Io l’anno prima del 1958 partii con i miei genitori per Dunkerque. Non possiamo rimpiangere quella Taranto da dove la gente era costretta a emigrare. Con l’Ilva ci dobbiamo trattare ma il referendum è sbagliato». Cifre alla mano, la fabbrica voluta non solo dalla Dc ma anche dalle sinistre (il titolo del «Corriere del giorno» fu: «Una nuova era si è iniziata a Taranto per la storia del Mezzogiorno d’Italia») pesa per il 75% sul Pil provinciale, per il 20% su quello regionale. E dipende dall’ex Italsider, direttamente o indirettamente, almeno una famiglia tarantina su tre. Va da sé che i quesiti referendari hanno aperto spaccature lancinanti. In particolare il primo: «Volete voi cittadini di Taranto, al fine di tutelare la vostra salute nonché la salute dei lavoratori contro l’inquinamento, proporre la chiusura dell’Ilva?». Sulle prime la domanda era avventata fino all’ingenuità: «Volete voi cittadini di Taranto, al fine di tutelare la vostra salute, nonché la salute dei lavoratori contro l’inquinamento, proporre la chiusura dell’Ilva, con l’impegno del governo di tutelare l’occupazione, impiegando le maestranze per lo smantellamento e bonifica dell’area… ». Immediate ironie dei realisti: «E i pasticcini? Non chiediamo che il governo ci porti pure i pasticcini?»

Dicono i «duri e puri» alla Marescotti che «occorre uscire dalla monocultura, prima dei cantieri navali e poi dell’Italsider. La salute viene prima. In India sono più poveri di noi ma nel villaggio di Dhikia a una maxiacciaieria la gente si oppone». Dicono i pragmatici alla Corvace: «Noi ambientalisti non possiamo permetterci di uscire dal referendum dalla parte di chi perde. Dobbiamo trattare, trattare e trattare con l’azienda. Ma il referendum rischia di rivelarsi una sconfitta storica». Se è fetida l’aria spinta dal vento verso il quartiere Tamburi, non meno brutta è l’aria che tira dal punto di vista economico, produttivo, occupazionale. Anche perché è improbabile che lo Stato, invocato nell’iniziale quesito referendario, ambisca a tornare ad assistere i tarantini. La gestione del pubblico denaro negli ultimi anni, infatti, è stata indecente. A raccontarla tutta, la storia del crac del Comune di Taranto, il primo in assoluto in Italia ad avere un liquidatore come capita alle società fallite, ci sarebbe da scrivere un libro. Un po’ comico e un po’ horror. Prendete la faccenda dei semafori, scoperta da Cesare Bechis del «Corriere del Mezzogiorno ». Un bel giorno un funzionario butta un occhio sulle bollette: come è possibile che un semaforo costi meno di 18 euro di elettricità e un altro 1.749? Se fanno entrambi la stessa cosa (luce verde, gialla, rossa…) come è possibile che uno costi cento volte più di quell’altro? Sfoglia i conti e ci resta secco: non c’è semaforo che abbia una bolletta uguale a un altro. Come mai? A certi semafori si attaccavano con i cavi per fregare la luce tutti gli abitanti dei dintorni. Non c’è settore nel quale, per anni, le pubbliche casse non siano state viste come mammelle alle quali era «normale» succhiare il più possibile. Un paio di esempi? Tra tutti i conti presentati dai creditori del Comune (per un totale di 5.960 istanze di gente che diceva di avanzare soldi) spiccano tre parcelle di un avvocato per un totale di 150 mila euro. Mario Pazzaglia, il presidente veneto-marchigiano dell’Ols (l’Organo Straordinario di Liquidazione), non è convinto. Spulcia e scopre che si tratta di tre fatture per la stessa pratica. «Oh, scusate, un errore della segretaria…». Pagamento concordato: 6 mila euro. Venticinque volte di meno. Altro esempio? Lo racconta ancora Bechis: «Fatta cento la tassa sui rifiuti (Tarsu) accertata a carico di un nuovo contribuente, finisce nelle casse comunali il 26,34%». Poco più di un quarto. Ma soprattutto la metà di quello che si trattenevano le società (l’ultima fetta, storicamente, riguarda gli evasori) delegate agli accertamenti e alla riscossione. Che si portavano via addirittura il 47,29% sull’accertato. Un delirio. Per non dire della maxi evasione dell’Ici da parte delle grandi imprese, come la stessa Ilva, che per anni avevano «dimenticato» come l’imposta andasse pagata non solo per le opere in muratura. Totale dell’evasione accertata dal 2003 al 2007: 57 milioni. Una somma enorme. Tanto più per un Comune con l’acqua alla gola. C’è poi da stupirsi che Taranto sia affondata nel 2006 sotto una montagna di debiti che Pazzaglia e i suoi hanno definito proprio giovedì scorso in 835 milioni? E meno male che controllando documento su documento («le fatture erano ricaricate in media del 40% e perfino Equitalia diceva di avanzare dal Comune 25 milioni e invece ne avanzava 4») la somma finale è stata ridotta. Quella iniziale era di 920. Cioè 14.000 euro di buco a famiglia.

Dovrebbero studiarla a scuola, la storia degli anni della Grandeur Tarantina. Quando il Comune era amministrato da Rossana Di Bello, una biologa titolare di alcune gioiellerie, fondatrice del primo club pugliese di Forza Italia, eletta nel 2000, rieletta trionfalmente nel 2005 e dimessasi l’anno dopo in seguito a una condanna per abuso di ufficio e falso ideologico nell’ambito dell’inchiesta sull’inceneritore. Appalti incredibili. Contabilità allegra. Megalomanie. Al punto che fu avanzata l’idea (travolta dal crac) di costruire il Colosso di Zeus, una statua gigantesca che avrebbe dovuto ricordare l’antica opera di Lisippo. Colossale fu il buco lasciato dalla giunta berlusconiana. E colossale la legnata inflitta alle elezioni del 2008 alla Casa delle Libertà, precipitata in due anni dal 57,8 al 15,5%, con tracollo di 42,2 punti. Tanto che il ballottaggio per il sindaco vide scontrarsi due schieramenti di centrosinistra con travolgente vittoria (76%) di Ippazio Stefàno, un pediatra che dopo essere stato senatore pidiessino aveva chiuso con la politica attiva per dedicarsi al volontariato ed era appoggiato da un «fritto misto», dall’Udeur a Rifondazione comunista. Tre anni dopo, assediato da mille cittadini in difficoltà, mille beghe interne alla sinistra e mille grane ereditate dal crac («non abbiamo diritto neppure ad avere un direttore generale o un addetto stampa e io me le sogno le venti persone nello staff che aveva la Di Bello!») il sindaco allarga le braccia: «Su 40 seggi la sinistra ne ha 29, la destra 11. Teoricamente dovrei leccarmi le dita. E invece è una lite al giorno. Per ragioni di bottega. Destra e sinistra, solo bottega. Un ostruzionismo continuo, che di fatto va contro la povera gente. Dibattiti sui destini della città, zero. La commissione ambiente e paesaggio, per dire, non è ancora stata nominata. Dovrebbe occuparsi delle spiagge. Siamo a metà luglio e il consiglio comunale non l’ha nominata. Non so se mi spiego». I conti, certo, vanno meglio. Le entrate Ici, per esempio, sono salite da 32 milioni nel 2006 a 45 l’anno scorso e probabilmente 55 quest’anno. Quelle della Tarsu da 19 a 33. Ma alcuni problemi annosi, spiega Stefàno, sono rimasti irrisolti: «Il Comune ha 2000 appartamenti e ne ricava 400 mila euro l’anno. Fatti i conti ogni appartamento rende 200 euro d’affitto. Da non dormirci di notte. Vorrei e dovrei censirli a uno a uno ma mi mancano perfino i vigili. Sulla carta ce ne sono 194 ma 56 figurano “non idonei”. Ne restano 140, su due turni. Togli malattie, riposi, assenteisti e di fatto, la domenica, per una città di 200.000 abitanti, sì e no in servizio ce n’è una dozzina». I dipendenti comunali, dice, con «una pianta organica che era stata gonfiata fino a 1.750 dipendenti, sono calati da circa 1.500 a 1.050». Miracolo? Magari. Quando scoppiò il bubbone saltò fuori che decine di funzionari e dirigenti si erano auto-aumentati lo stipendio autocertificando di avere fatto per il Comune dei lavori al progetto. Buste paga da venti, trentamila euro al mese. Con punte di 39.160. Basti dire che a un certo Cataldo Ricchiuti, accusato di essersi regalato 567 mila euro di aumenti illegittimi, furono sequestrati 12 fabbricati, un terreno, 124 mila euro in banca…

Ma quelle megatruffe, spiega il sindaco, erano solo la punta dell’iceberg: «Tutti i dipendenti, salvo forse una ventina di persone pulitissime, avevano gli stipendi più alti. Dico tutti. Straordinari senza controllo, “progetti” pagati a parte per fare niente, autocertificazioni di familiari a carico… Tutto “normale” pareva. Quando ho cercato di ripristinare un po’ di serietà (ci guardavano come dei marziani rompicoglioni) chi poteva se n’è andato in pensione così che questa fosse calcolata sulla base dell’ultimo stipendio. Sa, piuttosto che vedersela conteggiare su una busta paga ribassata…». Dice che lui, con i conti messi in quel modo, lo stipendio da sindaco non lo tocca neppure: «Lo versano su un conto corrente a parte. E i soldi servono per fare tante cose. Pubbliche. Ame basta la pensione». Lo stesso Giancarlo Cito, incazzosissimo bastian contrario, riconosce che sì, «Ippazio è uno che fa le cose con spirito missionario. Pediatra bravissimo. Se i nipotini hanno un problema chiamo lui. Sarebbe un grande missionario in Africa. Per fare il sindaco di Taranto però servono gli attributi. Durissimi bisogna essere. Lui non lo è». Era dimagrito di 45 chili, l’ex sindaco costretto a dimettersi e poi condannato a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa, quando nel 2006 «La Voce del Popolo» lo sparò spettrale in copertina col titolo: «Vi prego, non mi abbandonate!». Pagato il conto con la giustizia, anche se ha ancora qualche gatta da pelare, l’istrionico imprenditore televisivo sembra tornato quello di una volta. Che conquistò la carica di primo cittadino e poi un seggio alla Camera sventagliando sulla sua tv (Tbm: Tele Basilicata Matera ma i tarantini ammiccano che in realtà è Tele Benito Mussolini) raffiche di sgrammaticati insulti ai politici: «Siete delle carogne, dei ladri, dei delinquenti!». «Io vi do un sacco di botte perché avete rubato a quattro ganasce! ». «Signori che avete le orecchie a livello di Trombo di Eustacchio!». Per il momento, in politica, c’è tornato per interposta persona. Candidando il figlio Mario (l’unico candidato del pianeta muto come Bernardo, il servo di Zorro: «a parlare penso io») fino a portarlo incredibilmente al 20% alle comunali e addirittura al 30% (solo in città, si capisce) alle provinciali. Due trionfi. A dispetto della fama che ha nel resto d’Italia dai tempi in cui si candidò a sindaco di Milano con uno slogan purtroppo incompreso: «Voglio tarantizzare Milano. Farla diventare come la mia Taranto, la Svizzera del Sud». Una scalata cui seguì quella all’Europa per «tarantizzare Strasburgo ». Ora che l’interdizione dai pubblici uffici è scaduta si candiderà ancora? Cito gigioneggia: «Mah…». In ogni caso, convinto com’è di essere stato il più grande sindaco di tutti tempi («io feci rimuovere 40 mila auto in seconda fila, io portare qui l’università, io scendere gli scippi a un paio l’anno…») è tornato a mostrare i muscoli. Letteralmente. Andando a nuoto da Reggio Calabria a Messina («da Villa San Giovanni son capaci tutti») per glorificare l’idea di unire il Mezzogiorno contro l’odiata Lega Nord. Una nuotata alla Mao Tzetung? Ma va là: «Quello s’era fatto un bagnetto nel Fiume Giallo. Plop, plop, fine. Io invece…».

http://www.corriere.it/cultura/speciali/2010/visioni-d-italia/notizie/22-taranto-Come-rinascere-dopo-i-veleni-La-citta-dell-acciaio-alla-prova_d46c2d3e-8c04-11df-9aa1-00144f02aabe.shtml

Analisi banale (ma irreprensibile) sulle origini della Bibbia. E naturali conseguenze

Abbiamo più volte parlato in questo blog di Bibbia, di come vada letta e interpretata.

Questo che vi propongo è un testo tratto dal blog di Maurizio Fiumara; racchiude molte delle analisi già fatte in passato, analisi che lui stesso definisce banali ma allo stesso tempo irreprensibili.

  

Spesso, nel senso comune, quando si vogliono stabilire un concetto, o un testo, come unica ed ultima autorità, assoluta e dogmatica, si usa definirli “la bibbia” di quell’insegnamento.

Il parallelismo col Testo Sacro è dovuto alla presunta origine di quest’ultimo, comunemente creduta divina, più correttamente ridimensionata quando si risale alla sua esatta genesi.


 

La Bibbia è un libro cristiano che nasce nel 367 E.v. (o d.C.) come raccolta di libri, per opera di Atanasio di Alessandria, il cui processo di selezione si vedrà concluso collegialmente solo nel 1546, col Concilio di Trento. 

Analiticamente, può essere suddivisa in due parti: il Vecchio (o Antico) Testamento ed il Nuovo Testamento, ovvero la Tanakh ebraica, costituita, a sua volta, dalla Torah, o Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio), gli Scritti (ai quali appartengono i Libri sapienziali di cui fanno parte i Salmi), i Libri storici, i Libri profetici, i quattro Vangeli sinottici, le Lettere di Paolo, le Lettere cattoliche, gli Atti degli Apostoli, l’Apocalisse, in cui il numero complessivo dei volumi è differente a seconda della comunità ecclesiale che l’adotta come proprio fondamento.


 

Due le informazioni, già molto importanti, che si possono fin qui rilevare: la data. Vede la luce più di trecento anni dopo la morte di Cristo, mettendocene più di mille (di accorgimenti) per raggiungere la versione da noi conosciuta; e l’arbitrarietà del contenuto. Innanzi tutto una umana selezione di umane opere letterarie (che spiegano il perchè dei diversi stili) taluni derivanti da tradizioni orali (motivo per cui alcuni testi sono anonimi) poi, un diverso numero di libri, più numerosi (73) per le Chiese cattolica (dal greco katholikòs, cioè “universale”) ed ortodossa (che non riconosce il primato papale, il Purgatorio e non ammette la grazia creata, credendo alla partecipazione dell’uomo alle energie divine increate), rispetto a quelli (66) inseriti dalle comunità nate dalla riforma protestante del sedicesimo secolo.


 

Va da sè che un’intenzionalità divina avrebbe dovuto salvaguardare nel tempo, magari attraverso l’ispirazione dello Spirito Santo, lo stesso numero di libri, a prescindere dall’utenza.

Se ne deduce che la Bibbia sia ‘invenzione’ della Chiesa, voluta nè da Gesù, nè, tanto meno, dal Padre celeste, risultando, senza troppi scrupoli, prodotto della Chiesa, assieme alla liturgia, ai sacramenti, al Purgatorio, facendo emergere una realtà così poco romantica e, soprattutto, depauperata dell’accezione di ‘origine divina’.

Non dimentichiamo che durante il Medioevo, e gran parte del Rinascimento, la Chiesa cattolica è stata l’autorità intellettuale dominante in tutta Europa. Gli studiosi europei del Medioevo erano membri del clero; le università, in cui il sapere antico veniva praticato e diffuso, erano scuole ecclesiastiche.


 

Ma quanti cattolici conoscono queste cose? Perchè questo è un punto importante. Non solo perchè un’origine non divina (diversa e molto più modesta) del caposaldo di una religione monoteista determinerà confutazioni perenni (un conto è che quelle cose le abbia dette una mente trascendente divina, un altro è che quei contenuti provengano da un lavoro umano, con tutti i (leciti) sospetti che ne derivano sulla finalità dell’opera), ma anche perchè il risultato editoriale è paragonabile a quello che si potrebbe ottenere da una raccolta di poesie orientali, di epoche diverse, unite alla Divina Comedia di Dante, a cui venisse attribuito un messaggio di verità unica, dogmatico, risultando necessariamente occulto e contraddittorio. Come di fatto è la Bibbia.

Ne discende che chi professa il proprio credo, magari porta a porta, basandolo letteralmente ed esclusivamente sulle Sacre Scritture, stia facendo un imperdonabile errore, perchè è come se volesse insegnare a costruire una casa ad una controparte, trincerandosi dietro la lettura puntuale di indicazioni tratte da un manuale di edilizia, ricavato da appunti ben riportati, ma trovati in soffitta, di provenienza dubbia e non sempre firmati; la Bibbia, infatti, è il testo che afferma che Sole e astri ruotano attorno alla Terra. E Dio doveva ben sapere come stessero esattamente le cose.


 

Quindi, attenzione a come si legge la Bibbia perchè di ingenuità così vistose non ve ne sono poche, tanto che il filosofo-teologo Ephraim Gotthold Lessing non esitò a definire l’Antico Testamento “libro elementare per fanciulli”.

“Il biblicismo è una pericolosa malattia, è la paralisi dello spirito, l’incatenamento della libertà alla lettera scritturistica che spesso produce il fanatismo fondamentalista delle sette, pericolosa prigione alla quale è preferibile lo scetticismo di chi continuamente ricerca”, come afferma il moderato, ma attento, teologo Vito Mancuso.

Chi racconta Dio basando le proprie affermazioni soltanto sulla Bibbia, dimostra di non aver argomenti, perchè la Bibbia è contraddittoria e fantastica, e per fare un discorso sensato è inevitabile fare omissioni, o passare dal simbolico al reale, a seconda della propria convenienza, ottenendosi discorsi che sono pura interpretazione personale.


 

Per esempio, da una personale statistica, tecnicamente significativa, risulta che pochissimi sono coloro che conoscono il contenuto dei 150 Salmi che costituiscono il Vecchio Testamento e che fanno parte della Bibbia, non pochi dei quali dipingono un’immagine di Dio poco incline al perdono, addirittura vendicativa, e che proprio per questo ci si guarda bene di discutere negli incontri a tema religioso, dalla cui lettura diventa facile spiegare anche molti dei comportamenti dei c.d. “credenti (borghesi) della domenica”, che ciascuno conosce, i quali si sentono (immotivatamente e goffamente) tanto a posto con la coscienza quanto pronti a sottoporre a sommarie sentenze, come empi, tutti coloro che la pensano, in termini religiosi, diversamente da loro.


 

Per potersi fare un’opinione in merito, Salmo 11: “Egli farà piovere sull’empio carboni accesi; zolfo e vento infocato sarà il contenuto del loro calice”. Salmo 21: “La tua destra colpirà quelli che ti odiano. Tu li metterai come in una fornace ardente quando comparirai (…) il fuoco li divorerà. Tu farai sparire il loro frutto dalla terra e la loro discendenza tra i figli degli uomini (…) con il tuo arco mirerai diritto alla loro faccia”. Salmo 58: “O Dio, spezza loro i denti in bocca; o Signore, fracassa le mascelle dei leoni! (…) Siano come lumaca che si scioglie strisciando; come aborto di donna, non cedano il sole. (…) Il giusto si rallegrerà nel veder la punizione, si laverà i piedi nel sangue dell’empio, e la gente dirà: certo, vi è una ricompensa per il giusto; certo, c’è un Dio che fa giustizia sulla Terra!”. Salmo 78 (che si ripete approssimativamente uguale nel Salmo 105): “Egli mutò i loro fiumi e i loro ruscelli in sangue, perchè non vi potessero più bere. Mandò contro di loro mosche velenose a divorarli e rane a molestarli. Diede il loro raccolto ai bruchi e il frutto della loro fatica alle cavallette. Distrusse le loro vigne con la grandine e i loro sicomori con i grossi chicchi d’essa. Abbandonò il loro bestiame alla grandine e le loro greggi ai fulmini. Scatenò su di loro il furore del suo sdegno, ira, indignazione e tribolazione, una moltitudine di messaggeri di sventure. Diede sfogo alla sua ira; non li risparmiò dalla morte, ma abbandonò la loro vita alla peste. Percosse tutti i primogeniti d’Egitto, le primizie del vigore nelle tende di Cam”. Salmo 79: “Restituisci ai nostri vicini sette volte tanto l’oltraggio che ti hanno fatto, o Signore” Salmo 109: “Siano pochi i suoi giorni: un altro prenda il suo posto. I suoi figli diventino orfani e sua moglie vedova. I suoi figli siano vagabondi e mendicanti (…) La sua discendenza sia distrutta; nella seconda generazione sia cancellato il loro nome!” Salmo 137: “Beato chi afferrerà i tuoi bambini e li sbatterà contro la roccia”. Salmo 149: “Abbiano in bocca le lodi di Dio e una spada a due tagli in mano per punire le nazioni e infliggere castighi ai popoli; per legare i loro re con catene e i loro nobili con ceppi di ferro”.


 

Da questa limitata rassegna è evidente perchè i cattolici conoscano solo un’educazione “positiva” fatta di premi e punizioni, la stessa che è impartita erroneamente a gran parte dei bambini: tutto nasce dal carattere vendicativo ed irascibile attribuito a Dio dall’uomo, per un’atavica sete di vendetta, tipicamente umana, che impartisce all’umanità punizioni come il Diluvio universale, la distruzione di Sodoma e Gomorra, il martirio di Giobbe etc. e che, in quanto “giusto”, è da imitare.

Questo è il Dio cristiano raccontato dalla Bibbia, e delle due l’una: o Dio esiste ed è anche quello dei Salmi, o è una creazione dell’Uomo, ergo, non esiste. In entrambi i casi ne deriva che il Dio cristiano non è quel ‘signore’ buono e caritatevole che pensavamo fosse: il Dio cristiano non è quello che pensavamo!


 

Parallelamente, non si deve perdere di vista il fatto che anche sulla redazione dei Vangeli ci sono molteplici critiche: sugli estensori, sui contenuti, sui fatti storici, sulle stesse parole che avrebbe pronunciato Gesù.


 

A questo proposito, è interessante notare come nella prima lettera ai Tessalonicesi S. Paolo scriva, credendo in un ritorno imminente di Gesù: “Noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore (…)”, poichè Gesù aveva dichiarato “In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo accadrà” (cioè il suo ritorno, N.d.r.) (Matteo 24, 34, Marco 13, 30, Luca 21, 32). Ma dopo diverso tempo, diventando anziano e non preannunciando alcun ritorno rivelerà, nella seconda lettera ai Tessalonicesi “(…) riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla riunione con lui (…) [non lasciatevi] così facilmente confondere e turbare (…) da parole (…), quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in questo modo”.

Povero Paolo di Tarso, convertito, ma deluso.


 

Non ultima l’insidia proveniente dalla traduzione.

Il Vecchio Testamento è stato scritto in ebraico e aramaico, i Vangeli in greco. San Girolamo ha tradotto tutto in latino, dando vita a qualche dubbio sulle sue, capacità linguistica e malafede, tanto che i dotti (e scaltri) umanisti riprenderanno i testi originali accorgendosi di non poche subdole traduzioni.

A questo riguardo è interessante l’analisi che Mancuso fa della Summa contra gentiles, nella quale il filosofo Tommaso d’Aquino, riferendosi al premio eterno, parla di maxime Deo assimilamur cioè (noi) saremo assimilati a Dio, ma che “l’autorevole traduttore italiano, il padre domenicano Tito Centi, ha sentito il dovere di moderare quella che per lui risultava una pericolosa espressione panteistica di san Tommaso rendendo l’originale latino assimilamur non con “assimilazione” ma con “somiglianza”.


 

Qualcuno disse che “nel dettaglio si nasconde il demonio”: un piccolo aiutino qua e là, artifici, sofisticazioni, possono modificare radicalmente la realtà delle idee e quando si tratta di tematiche teologiche, i sospetti che i concetti possano essere ‘aggiustati’, col fine di corroborare il potere della Chiesa sono altissimi.

Ma poichè qualcun’altro sostenne che “a pensar male si compie peccato”, sapere aude!

8 x mille: ora anche basta

 

Il significato di una festa

Mentre onoriamo il 25 Aprile dovremmo chiederci perché questa giornata sia stata spesso faticosamente festeggiata e abbia diviso gli italiani piuttosto che unirli. Se vogliamo che la data diventi davvero nazionale, dovremmo parlarne con franchezza e senza infingimenti retorici. In primo luogo il 25 Aprile segna la fine di una guerra civile, vale a dire la conclusione di una vicenda in cui parole come patria e onore hanno avuto per molti italiani significati diversi. Sappiamo che i fascisti di Salò sbagliarono, ma non possiamo ignorare che erano anch’essi italiani e che molti fecero la loro scelta in buona fede. Era difficile immaginare che il 25 Aprile potesse venire festeggiato con lo stesso entusiasmo e la stessa partecipazione da chi aveva militato in campi diversi.

In secondo luogo il Partito comunista si attribuì il merito della vittoria e divenne il maggiore e più interessato regista delle celebrazioni. Eravamo — è bene ricordarlo — negli anni della guerra fredda, quando il Pci, pur essendo alquanto diverso da quello dell’Urss, ne era pur sempre il «fratello » e ne adottava, quasi sempre disciplinatamente, le linee di politica estera. Non sorprende che a molti italiani il 25 Aprile sembrasse il travestimento patriottico di una strategia che non poteva essere nazionale.

I partiti democratici, dalla Dc alla social-democrazia, ne erano consapevoli. Ma non potevano rinunciare a celebrare la Resistenza e cercarono di salvare il 25 Aprile dall’abbraccio mortale del Pci descrivendo quel giorno come la conclusione vittoriosa della «quarta guerra d’indipendenza». La definizione ebbe una certa fortuna sino a quando il Risorgimento non cominciò a perdere, per una parte crescente della società nazionale, il suo valore positivo e divenne «rivoluzione tradita» per alcuni, conquista coloniale per altri, operazione fallita per molti. Non esiste più il Pci, ma esiste un partito anti- risorgimentale composto da persone che non hanno altro punto in comune fuorché un certo rancore per il principio stesso dell’unità nazionale: leghisti, legittimisti borbonici, anarchici, cattolici reazionari, nostalgici di Maria Teresa, di Francesco Giuseppe, del Granduca di Toscana. Già danneggiato dall’uso che ne fece il Pci, il 25 Aprile non sembra oggi commuovere e interessare, se non per motivi strumentali e occasionali, coloro che non credono nell’unità nazionale.

 

Continuo a pensare e a sperare che questi sentimenti siano una febbre passeggera, provocata dalle scosse di assestamento di uno Stato che non è ancora riuscito a rinnovare le sue istituzioni. Nel frattempo, tuttavia, faremmo bene a ricordare che il 25 Aprile ebbe meriti a cui tutti dovremmo essere sensibili. Penso ai morti della guerra civile e al significato simbolico che la Resistenza ebbe per la credibilità dell’Italia dopo la fine del conflitto. Penso soprattutto al fatto che i partigiani insorsero nelle città del Nord prima dell’arrivo degli Alleati e dimostrarono così al mondo, come ha ricordato il presidente della Repubblica nel suo discorso di ieri alla Scala, che gli italiani volevano essere padroni a casa loro. Se non vogliamo che anche questa pagina della nostra storia venga dimenticata, teniamoci stretto il 25 Aprile.

Sergio Romano www.corriere.it

IO STO CON EMERGENCY

SABATO 17 – ore 14,30
Appuntamento in Piazza San Giovanni ROMA

Sabato 10 aprile militari afgani e della coalizione internazionale hanno attaccato il Centro chirurgico di Emergency a Lashkar-gah e portato via membri dello staff nazionale e internazionale. Tra questi ci sono tre cittadini italiani: Matteo Dell’Aira, Marco Garatti e Matteo Pagani.

Emergency è indipendente e neutrale. Dal 1999 a oggi EMERGENCY ha curato gratuitamente oltre 2.500.000 cittadini afgani e costruito tre ospedali, un centro di maternità e una rete di 28 posti di primo soccorso.

IO STO CON EMERGENCY

Il fallimento di Gesù

Oggi i cristiani di tutto il mondo festeggiano la Pasqua, ricordando la resurrezione del loro Dio, Gesù di Nazareth.

Il resto del mondo vive una domenica come un’altra e qualcuno si interroga sulla figura di questo uomo-dio che, seppur indirettamente, ha cambiato la storia dell’umanità.

Per il sottoscritto Gesù è stato ed è tuttora uno dei più grandi sconfitti della storia.

Perché sconfitto se ancora oggi oltre un miliardo di persone lo adora come se fosse un Dio e ne ricorda la sua presunta resurrezione? Proprio per questo motivo; perché lui altro non era che un uomo, un uomo che non aveva nessuna intenzione di fondare un nuovo movimento religioso, un uomo le cui parole furono stravolte a tal punto da renderlo il salvatore dell’umanità.

Ma vediamo i motivi per cui può considerarsi un fallito.

1)    Voleva rifondare il giudaismo e non c’è riuscito

 

Gesù credeva davvero di essere il figlio di Dio, colui che avrebbe riportato le pecorelle smarrite della casa d’Israele nuovamente nel gregge. Era ebreo e rispettava la legge di Mosè anche se aveva un modo totalmente innovativo per vivere la propria fede, molto più individuale, spirituale.

Non riuscì a far nulla di quello che si era prefissato, se non peggiorare la situazione.

 In seguito alla sua morte entrò,infatti, in gioco Paolo che contribuì in maniera determinante al fallimento del progetto del suo Maestro.

Paolo rivolse il messaggio di Gesù ai pagani e facendo questo creò una tale frattura con i giudei da provocare la scissione con loro e la contemporanea nascita di una nuova religione che con Gesù aveva in comune forse soltanto il nome.

 

2)    Voleva riunire un popolo ma non fece altro che distruggerlo

 

Certo non era quella la sua intenzione ma alla luce di come andarono i fatti il movimento che nacque in seguito alla sua morte non fece altro che accentuare le divisioni già esistenti tra i giudei.

Le rivolte ebraiche e la successiva diaspora non fecero altro che separare un popolo che Gesù solo qualche decennio prima aveva sognato di riunire. Un popolo che successivamente iniziò ad essere perseguitato proprio perché aveva ucciso quell’uomo ormai trasformato definitivamente in un Dio.

 

3)    Aveva predetto l’imminente parusia, la sua seconda ravvicinata venuta ma dopo 2000 anni i suoi seguaci aspettano ancora

 

Se analizzato da un punto di vista umano questo non è poi un fallimento, in fondo nessun uomo è in grado di predirre il futuro. Leggendo i Vangeli nemmeno Gesù si sbilancia più di tanto dandoci una data precisa di questa parusia. La descrizione che ne fa è invece dettagliata, lucida e ne riporto qui il passo tratto dal Vangelo secondo Marco.

               “…In quei giorni, dopo quella tribolazione,

il sole si oscurerà
e la luna non darà più il suo splendore
e gli astri si metteranno a cadere dal cielo
e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.

Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. […]  Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre”

Anche se in un altro passo, pur non sapendo il giorno preciso, pensa comunque di sapere il periodo in cui avverrà tutto quello che ha predetto.

<<E diceva loro: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza”.>>

I primi “cristiani” (inteso come suoi discepoli) credevano davvero in un imminente fine del mondo,  attendevano con ansia il momento in cui si sarebbero avverate le previsioni del loro Messia e aspettavano la sua seconda venuta. Tra alcuni iniziava a crescere il malumore ma persino Paolo li invitava a non perdere la speranza e a continuare ad aver fede perché la parusia sarebbe stata imminente.

La prima guerra giudaica sembrava essere il preludio alla parusia; la distruzione del tempio di Gerusalemme da parte del generale Tito il segnale più lampante che tutto stava per finire. Ma così non fu e lo sconforto iniziò a farsi largo anche tra coloro che fin dal primo momento avevano creduto nel nuovo Messia.

La generazione degli apostoli passò e così anche le successive senza che nessuno di loro riuscisse a vedere il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con potenza e gloria.

Per un uomo, come detto è assolutamente normale sbagliare una previsione; quella di Gesù era più che altro una speranza trasformata in certezza dalla sua fede ma niente di più. Se fosse stato invece un Dio tutto il suo discorso sarebbe un clamoroso autogol.

 

4)     Il fallimento anche in versione divina

Una volta che i cristiani capirono che non ci sarebbe stata nessuna imminente parusia, cambiarono le carte in tavola e stravolsero completamente pensiero, messaggio e ruolo di Gesù. Da uomo venuto per portare l’unione nel popolo ebraico era stato trasformato prima in un semi-dio e poi con un assurdo ragionamento in un Dio che aveva deciso di rendersi uomo per sacrificarsi e salvare con quel gesto l’intera umanità, presente, passata e futura. Una bella fantasia, non c’è che dire. Ma esaminando questo sacrificio oggi 3 aprile 2010 è naturale porsi un interrogativo.

Il gioco è valso la candela? Il sacrificio di Gesù è davvero servito a salvare l’uomo dal peccato aprendogli le porte del paradiso?

Per rispondere in maniera esaustiva a questa domanda servirebbe una sfera di cristallo per vedere cosa succederà alla fine dei tempi. Ma comunque già oggi possiamo dire che questo sacrificio è valso più come pretesto per fare del male che per fare del bene.

Milioni di persone sono morte in nome di questo dio, sia per difendere la propria fede, sia per difendere la propria libertà di non credere.

Eppure secondo i cristiani questo è stato il disegno di Dio per salvare l’uomo. Nel momento in cui Dio ha avuto l’idea di creare l’universo ha pensato bene che dopo oltre 13 miliardi di anni si sarebbe incarnato in una delle tante specie presenti su un piccolissimo e quasi insignificante pianeta chamato Terra.

E l’ha fatto pur avendo visto in principio che questo sacrificio sarebbe costato la vita a milioni di sue creature. Un disegno con meno sofferenza e morte non era proprio possibile? Certamente si, ed è proprio per questo motivo che ritengo il Cristianesimo uno dei prodotti più assurdi e fantasiosi dell’uomo.

Il vostro dio non è risorto, il vostro dio è morto appeso a quella croce e da domani tornerà ad essere uno dei tanti grandi sconfitti della Storia.